Storia di Mendrisio

L’epoca preromana e la dominazione romana

Furono probabilmente i Liguri ad insediarsi per primi nel territorio ticinese; i segni della loro presenza si trovano nei nomi che hanno la desinenza in -asco, -usco, -osco: una ventina in tutto il cantone e uno anche a Mendrisio, Barnasco, che designa una zona vicina alle Banchette. Poi arrivarono forse gli Etruschi e attorno al 400 a.C. i Galli; delle quattro tribù in cui questo popolo si divideva una (gli Insùbri) penetrò anche nel Mendrisiotto, dove costruì dei castelli, per esempio a Pontegana, presso Balerna. E siamo così rapidamente trascorsi a un periodo in cui le certezze scarseggiano meno: l’epoca romana. Nel 59 a.C. cinquemila coloni romani affluirono a Como e allora si consolidò la romanizzazione delle terre lombarde, compreso il Mendrisiotto. Il centro più importante della regione non fu però Mendrisio, ma Stabio, in cui risiedeva una guarnigione di cavalieri con compiti di difesa. Segni della presenza romana sono comunque conservati anche a Mendrisio: sulla vecchia torre companaria in piazza del Ponte c’è una  lapide di marmo dedicata a Publio Valerio Dromone, un notabile locale.

Il medioevo

Il dominio Longobardo e un’ipotesi sul nome di Mendrisio

Dopo la caduta dell’impero romano nel 474 d.C., Mendrisio subì la sorte di tutto il territorio italiano, percorso e saccheggiato da potenti armate straniere.
La ridda dei dominatori incominciò con i Longobardi, che dalla Germania penetrarono nell’Italia del nord dove fondarono un regno (da loro deriva il nome di Lombardia).
La memoria di quel dominio resta nel nome del Borgo. Infatti, secondo l’etimologia più attendibile, Mendrisio deriverebbe da Mendricus o Manricus, che era il capo della fara (unità familiare e militare) longobarda stanziata nel territorio del Borgo. Le vecchie carte non smentiscono l’ipotesi: la prima volta in cui compare con il suo nome, nel 793, Mendrisio viene designato come Mendrici (più tardi: Mendrixii), che deve essere un genitivo e presuppone che si sottintenda fara, tanto che la dicitura completa dovrebbe essere fara Mendrici (fara di Mendrisio).
Nel 774 i Franchi sconfissero i Longobardi e divennero i nuovi dominatori delle terre lombarde (Mendrisiotto compreso); in seguito, nel 1170, Federico I, detto il Barbarossa, ristabilì l’autorità dell’impero e allora Mendrisio passò sotto il dominio di Como.

L’età dei comuni e delle signorie

Quando iniziò nel XII secolo l’epoca comunale, Mendrisio gravitò soprattutto nell’orbita di Como, ed ebbe a subire le conseguenze delle lotte che contrassegnarono la storia dei grandi comuni. Benché piccolo, il Borgo aveva infatti tre castelli e dunque costituiva un avamposto difensivo importante. Como e Milano se lo contesero subito e la popolazione ebbe a soffrirne, specie nel 1242, quando i Milanesi saccheggiarono il paese, che venne poi incorporato, insieme a tutto il Sottoceneri, nello stato di Milano, divenuto granducato nel 1395 e governato dalla potente famiglia dei Visconti. Il granducato fu travagliato dalle lotte che opposero i Visconti ai loro rivali Rusca. Le due potenti famiglie raggiunsero un compromesso nel 1416: Lotterio Rusca rinunciò al governo di Como, che passò ai Visconti, ricevendo in cambio una contea creata appositamente per lui e detta Val Luano, che comprendeva l’attuale Sottoceneri. Nel 1433, per limitare il potere dei Rusca, il duca di Milano Filippo Maria Visconti affidò la contea di Val Lugano ai Sanseverino. Si aprì un cinquantennio fosco, fatto di vessazioni fiscali e abusi giuridici. Contro l’arroganza di questi tirannelli, i mendrisiensi insorsero ripetutamente, perché era vivo in loro il desiderio di essere autonomi dal potere centrale: nel 1464, alla morte di Francesco Sanseverino, si rifiutarono di giurare fedeltà alla vedova Aloisa, chiamata a succedere al marito; nel 1467 pretesero di essere rimessi sotto la tutela di Como, l’antico padrone mai dimenticato. Nel 1485, grazie anche all’appoggio dei ghibellini luganesi, i Sanseverino dovettero lasciare il Borgo, che venne governato direttamente dl duca di Milano. A curarne gli interessi provvedeva un podestà di sua nomina, affiancato, per gli affari interni, da consoli scelti fra i notabili locali, a dimostrazione che Mendrisio godeva di una certa autonomia.

Mendrisio baliaggio degli svizzeri

L’adesione alla Svizzera

Dopo la sconfitta subita contro i Francesi a Marignano nel 1515, gli Svizzeri rinunciarono al progetto di conquistare la Lombardia e con la pace di Friburgo in Brisgovia (1516) si videro assegnati Locarno e il Sottoceneri. Mendrisio visse per alcuni anni in una condizione di incertezza, perché fu governata ancora da podestà milanesi del 1517 al 1521 e solo nel 1521 passò stabilmente sotto il dominio svizzero.

L’organizzazione del baliaggio

La più alta autorità del baliaggio era il Landfogto, che rimaneva in carica due anni; lo affiancavano il luogotenente e il Landscriba o cancelliere: la prima carica fu spesso occupata da membri delle famiglie notabili (come i Torriani, i Rusca e i Ghiringhelli), la seconda fu monopolizzata dai Beroldingen, adatti all’incarico perché parlavano bene il tedesco. I landfogti furono spesso governanti tirannici e violenti, non meno dei loro sudditi peggiori: qualcuno di loro esasperò a tal punto la popolazione da finire assassinato senza che nessuno lo compiangesse.

Anni di miseria

Ma come si viveva nel Borgo, che a partire dal ‘500 ruppe il suo guscio medievale, aprendo nuove strade e allargando le piazze, ma rimanendo comunque raccolto, con le sue neppure mille anime, tra la porta di San Giovanni e quella del Voltone?
La povera gente, cioè quasi tutta la popolazione, ricavava lo scarso pane dalla terra, penalizzata spesso dalle carestie: almeno due flagellarono il Borgo nel XVI secolo, una terza di sicuro imperversò attorno al 1623 e colpì anche in alto, tanto che neppure il Landfogto aveva da mangiare.
In tanta miseria molti si arrangiavano come potevano, e le gride in proposito sono parlanti. Una, datata 1573, informa che era diffuso il malvezzo di lasciar pascolare il proprio bestiame nei campi altrui per risparmiare foraggio; da un documento del 1591 sappiamo che si pescava di frodo; e poi c’era chi faceva incetta di grano e di altre derrate alimentari per venderli, in momenti di penuria, a prezzi più alti di quelli stabiliti per legge. E naturalmente si rubava (o meglio: rubacchiava) molto, per necessità, non certo per cattiveria: un po’ di legna da miseri boschi e qualche frutto da poveri giardini erano il magro bottino.

La povera gente lavorava molto: dalle stelle del mattino a quelle della sera, e d’estate era una bella tirata. E non c’era pausa neppure la domenica, spesa sovente a pescare oppure a trasportare a casa la frutta o le messi per metterle al riparo dal maltempo; tutte abitudini non ammesse dai Landfogti, che multavano chi mancava alla messa e non rispettava l’obbligo del riposo domenicale.

Qualche piccolo profitto poteva essere ricavato dal mercato, che a partire dal 1500 si teneva ogni quindici giorni sul piazzale della Chiesa dei Cappuccini. All’inizio lo si gradì, perché le merci erano esenti dalle tasse e dai dazi; poi nel Seicento l’entusiasmo cominciò ad affievolirsi per spegnersi del tutto nel secolo successivo, quando l’autorità intervenne più volte (spesso però inascoltata) per ripristinare l’usanza.
Mendrisio non era ancora il borgo industriale che è oggi. Ma qualche fabbrica c’era: due cartiere, per esempio, a Bena. Della prima si sa che il proprietario, un certo Galeazzo Lavizzari, comasco, fu ucciso nel 1541 da un suo dipendente arrabbiato perché da tempo non riceveva il salario, e il movente del delitto la dice lunga sulle condizioni della fabbrica. La seconda cartiera, pure fondata da un Lavizzari, produceva carta di qualità che si vendeva perfino a Milano, e andò avanti per quasi due secoli, ma poi decadde; infatti nel 1709 il proprietario Giambattista Rossi conobbe la stessa grama sorte toccata due secoli prima a Galeazzo Lavizzari, e per un identico movente.
Qualche soldo poteva essere ricavato gestendo le osterie con alloggio, ma il mestiere comportava qualche rischio, perché accanto a mercanti (non sempre onesti) e a soldati di ventura (talora spregiudicati), le osterie avevano per avventori ladruncoli, bari al gioco e attaccabrighe. Osterie rinomate a Mendrisio furono quella dell’Angelo, in Piazza del Ponte, già citata nelle carte del XVI secolo, e quella dei Della Torre; e non va dimenticato l’albergo del Leone, prestigioso, in Pontico Virunio.
E i divertimenti? Si giocava ai tarocchi, alla “palla di legno” (le bocce di oggi) e alla morra, che fomentava risse; era molto diffuso il ballo, in prevalenza fra soli uomini, che troppo spesso si disputavano gli spazi (piazzette, corti e osterie) con il coltello in mano. Come si vede anche nello svago si insinuava la violenza dominante nella società di allora.

La repubblica cisalpina e la conquista della libertà

Il 29 giugno 1797 Napoleone proclamò a Milano la Repubblica cisalpina, fondata sui principi, cari alla rivoluzione francese, di uguaglianza, fraternità e libertà. La notizia che la Lombardia era libera giunse anche nei baliaggi ticinesi e diede vita a due schieramenti contrapposti: i cisalpini, o patrioti, persuasi che si potesse acquistare la libertà solo unendosi alla Repubblica cisalpina, e i federalisti, o volontari, che ugualmente aspiravano alla libertà, ma rimanendo legati alla Svizzera.
Le passioni sopite si scatenarono dopo i fatti accaduti a Lugano all’alba del 15 febbraio 1798, quando duecentoquaranta cisalpini, giunti in barca da Campione, tentarono di impadronirsi della città, ma vennero respinti dai volontari filoelvetici. La notizia giunse subito a Mendrisio e il giorno stesso venne issato l’albero della libertà, con il berretto dei Tell: era chiara la volontà di aderire alla Svizzera. Intanto un gruppo di notabili si recò a Palazzo Rusca per parlamentare con il Landfogto. Questi, l’ottantenne basilese Falkeisen, li ascoltò, dichiarò di condividerne le aspirazioni e addirittura scese in piazza del Ponte dove, con canti e balli, la popolazione festeggiava l’avvento della libertà.  I comuni del Mendrisiotto furono subito invitati a designare i loro rappresentanti per un congresso generale che aveva il compito di eleggere il consiglio del governo provvisorio; intanto Basilea, a cui era affidato il baliaggio, faceva sapere di rinunciare per sempre ad ogni diritto di sovranità. La transizione verso la libertà sembrava potersi compiere in pace, e invece il 22 febbraio 1798 un drappello di patrioti entrò armato a Mendrisio e lo occupò senza incontrare resistenza: iniziò così il dominio dei cisalpini, puntellato da una truppa di centocinquanta soldati francesi. La popolazione, spaventata, si sottomise al nuovo potere, pur odiandolo.
Dopo la proclamazione della repubblica elvetica una e indivisibile, modellata sulla Francia rivoluzionaria, i deputati di Mendrisio e di Balerna, riuniti in congresso, manifestarono il desiderio di “essere costantemente Liberi e Svizzeri”. I Francesi assecondarono la richiesta e il generale Brune, comandante in capo all’armata di occupazione, ritirò i suoi soldati da Mendrisio. E infine si volle democraticamente ascoltare il parere del popolo di Mendrisio il 6 giugno 1798; il risultato fu chiarissimo: 1810 cittadini si pronunciarono per l’adesione alla Svizzera, nessuno volle l’unione alla Cisalpina.

L’Ottocento

L’occupazione francese

Nel 1803 il Ticino divenne libero e svizzero e già il 22 aprile a Mendrisio venne eletta la nuova Municipalità, che si mise subito al lavoro. La pace sperata dopo tante lotte però non venne, anzi nacquero attriti con la Francia che protestò con il Governo cantonale, perché il Ticino non applicava in modo intransigente il blocco continentale contro l’Inghilterra, rivale di Napoleone. La tensione sfociò in un episodio drammatico: il 31 ottobre 1810, cinquemila soldati francesi del Regno d’Italia fondato da Napoleone occuparono Lugano e un loro distaccamento, guidato dal capitano Pavesi, giunse a Mendrisio. A malincuore la Municipalità accettò di alloggiarlo a Palazzo Pollini, trasformato in caserma, e di aprire un ospedale militare di fortuna, requisendo letti e coperte fra la popolazione. Tanta arrendevolezza è giustificata: si temeva infatti che Napoleone avesse l’intento di annettere il Ticino al Regno d’Italia, ma le sue mire espansionistiche vennero vanificate dalla disastrosa campagna di Russia, che lo vide sconfitto. Per questo motivo i Francesi rinunciarono a conquistare il Ticino e nel novembre 1813 lasciarono Mendrisio, che subito dopo accolse festosamente la truppa svizzera.

Mendrisio, l’Austria e il Risorgimento italiano

Dall’inizio dell’Ottocento al 1861 divamparono in Italia le lotte per l’indipendenza e per la libertà: il glorioso Risorgimento. I fatti d’Italia non potevano certo lasciare indifferenti i ticinesi, italiani di Svizzera, che si divisero in due fronti: i liberali parteggiavano per Mazzini e Garibaldi, sostenendo la causa della libertà, mentre i conservatori appoggiarono la restaurazione e l’Austria. E proprio l’Austria fu all’origine dei fatti drammatici del 1853. Indispettita perché alcune cellule mazziniane erano attive a Lugano, essa varò gravi misure di ritorsione: con un blocco militare impedì il transito di persone e merci tra il cantone e il Lombardo-Veneto; inoltre circa seimila ticinesi attivi in Lombardia vennero espulsi nel giro di tre giorni. Mancarono così a un tempo il grano e il lavoro, crebbero invece la miseria e la fame.
Degli espulsi, circa cento erano mendrisiensi; per fortuna – ed è un conforto in tanta tristezza- i compaesani da cui fecero ritorno forzato non lasciarono mancare loro la solidarietà. Anche i poteri pubblici si dimostrarono sensibili: la Municipalità riaprì l’ex convento delle Orsoline per alloggiare gli sfollati e il Consiglio di Stato fornì a Mendrisio dodici telai nuovi per dar lavoro ai disoccupati.
Lasciando correre il tempo, si arriva al 1859: con le vittorie di Garibaldi a Como e a Varese, la lotta per la libertà italiana si svolgeva a due passi da casa e i mendrisiensi sapevano e parteggiavano. Uno di loro il cui nome ha sconfitto il tempo,
Luigi Lavizzari, grande naturalista e scrittore, simpatizzava apertamente per i garibaldini e si trovava schedato come individuo pericoloso sul libro nero della polizia austriaca. A un altro mendrisiense, Antonio Cattaneo, la libertà dei popoli premette tanto da indurlo a partire per vari fronti: nel 1860 combatté insieme ai Mille, poi partecipò alla guerra di secessione americana e nel 1867 intervenne nella spedizione garibaldina contro lo stato pontificio. Ne ricavò, con la scomunica, anche il disprezzo del Borgo che non dovette più sembrargli suo al ritorno, anche se fu imitato da tre concittadini, Abelardo Maderni, Alessandro Medici e Costante Pedroni, partiti al seguito di Garibaldi. A staccare questi arditi dalla sonnolenta bonaccia locale, per portarli tra il fumo degli spari sui campi di battaglia italiani, dovette essere anche la lezione morale degli esuli che il Ticino aveva in casa, se non nel cuore. Proprio a Mendrisio nel 1839 era giunto un profugo illustre, Federico Confalonieri, intellettuale milanese e liberale, nobilitato dai dodici anni di carcere duro patiti nella fortezza austriaca dello Spielberg.

Le nuove infrastrutture

Nel corso dell’Ottocento Mendrisio si andò modernizzando. Un indubbio stimolo al progresso venne dalle Poste, che aprirono un primo ufficio nel 1850 in Piazza del Ponte e in seguito, dopo varie vicissitudini, vennero trasferite in uno stabile di via Beroldingen. Poi arrivò anche la ferrovia, simbolo, quant’altri mai, del nuovo. Nel 1863 venne iniziata la costruzione della linea Bellinzona-Chiasso; a Mendrisio ci fu subito fermento quando si trattò di decidere dove collocare la stazione: cento cittadini proposero, con una petizione, i prati di San Martino, ma poi prevalse la scelta di un altro luogo, la Ressiga, e non si cambiò più. Si mosse anche la Municipalità, nel 1873, e fu manovra lungimirante quella di chiedere al Consiglio federale che Mendrisio diventasse una stazione internazionale: ma forse la rivendicazione fu inoltrata con troppa lentezza e la spuntò, com’è noto, Chiasso, l’altro comune candidato. Comunque, il 6 dicembre 1874 la prima locomotiva a vapore entrò fischiando alla stazione di Mendrisio che nel 1877 si mosse, sempre tramite la Municipalità, per avere orari dei treni più adatti alle esigenze locali. Nel 1892 vennero posate le prime lampade elettriche nella contrada del Pretorio, nel 1899 trillarono i primi due telefoni dove più occorrevano, all’Ospedale della Beata Vergine  e alla cancelleria comunale. A fine secolo Mendrisio aveva tutte le infrastrutture degne di un borgo moderno e di un capoluogo di distretto: ferrovia, poste, l’illuminazione elettrica, nonché il ginnasio (dal 1852) e l’ospedale (dal 1860).

Le industrie

Gli abitanti di Mendrisio lavoravano in prevalenza nei campi, ma poco a poco il Borgo incominciò a ricavare un po’ di benessere dalle industrie, concentrate in prevalenza nel quartiere di Bena. Le più importanti erano le filande, che continuavano una tradizione già avviata nel Settecento: nel 1873 venne aperta la filanda Torriani-Bolzani, che dava lavoro a ben trecentocinquanta persone, in gran parte ragazze e donne. Poco sopra la filanda, e arrivando giusto un anno prima, nel 1872, la Fonderia Torriani cominciò a fabbricare locomotive, freni per vagoni ferroviari, torchi idraulici e pompe per incendio. Già dal 1845 si cominciò a produrre birra, mentre lontano da Bena operava il pastificio Tommasini, e vedeva corrergli i treni davanti alle finestre. Buon fervore conobbe l’industria tipografica, che affiancò nella lotta i liberali italiani. A Bena dal 1834 operò la tipografia della “Minerva ticinese”, che svegliò la sonnolenza locale con grandi libri (dai suoi torchi uscì anche un’edizione dei Promessi Sposi) e con i suoi giornali rivoluzionari come Il pungolo e L’istruttore del popolo , prima tartassati e poi soppressi dalla censura austriaca. Fra mille difficoltà la tipografia riuscì invece a durare sette anni, ma poi i continui interventi polizieschi la costrinsero a chiudere.

Carestie ed epidemie

Malgrado l’indubitabile modernizzazione, non mancarono nell’Ottocento i momenti bui, perché il progresso non riuscì a eliminare i patimenti. Nel 1816-17 imperversò la carestia, che scatenò tumulti popolari in piazza. Particolarmente luttuose le epidemie di colera: 23 morti nell’estate del 1836 e altrettanti, ma nello spazio di pochi giorni, nel 1849; e poi 18 nel 1854 e 5 nel 1855. Il male trovò resistenze deboli, perché la medicina non era preparata ad affrontarlo; la popolazione poi, sospettosa verso le scarse cure proposte dalla scienza, era molto incline a sottoporsi alle pratiche magiche di guaritori improvvisati.

Il Novecento

Mendrisio si modernizza ancora di più

Nel nostro secolo Mendrisio abbandona progressivamente il suo volto di comune rustico e dappertutto è un fiorire di cantieri per farne una cittadina moderna. Il catalogo delle opere risulta assai ampio: insieme con il secolo si avvia anche la centrale telefonica con i suoi sedici abbonati; nel 1906 arriva il gas grazie ai lavori avviati da una ditta zurighese; quattro anni dopo il progresso corre attraverso le vie del Borgo con il tram che affianca il traffico dei carri e di rare auto lungo i dodici chilometri della tratta Chiasso-Mendrisio-Riva San Vitale; dal 1922 Mendrisio ha un’azienda elettrica tutta sua, mentre prima la doveva dividere con i comuni limitrofi. Progresso vuole dire anche industrie e a Mendrisio ne fioriscono parecchie. Proprio al cominciare del secolo spuntano le camicerie e diventano addirittura cinque. Mancava una fabbrica per lavorare le materie plastiche: provvedono gli intraprendenti nel 1941-42, trasferendo la Plastifil da Capolago a Mendrisio, mentre già da cinque anni la Riri, giganteggiando di fronte alla stazione, produce le rinomate cerniere lampo. Come cattedrali della modernità sorgono altre fabbriche: la Boltina, che confeziona pettini, occhiali da sole e articoli da toilette, la Rex, per i prodotti chimici, e la Raffineria Miranco. Lavorano in pieno anche i laboratori fotografici, e sfornano ritratti ma a volte foto così vive e toccanti da poter essere considerate opere d’arte. E come dimenticare le banche, motore primo del dinamismo industriale? Dopo la prima, sorta fra gli spari della grande guerra, ne arrivano diverse altre, prosperano e non paiono troppe.

Mendrisio tra le due guerre

La prima guerra mondiale portò miseria, razionamento dei beni di prima necessità e rincaro. E gli anni Venti non furono migliori: aumentò il numero dei disoccupati, le grandi fabbriche minacciarono di chiudere, la popolazione chiese di ridurre le imposte, le tariffe elettriche e del gas. Per diminuire il numero dei disoccupati, le autorità avviarono l’esecuzione di nuove opere: la ferrovia Mendrisio-Stabio-Valmorea, la correzione di alcune strade, la “tombinatura” delle vie del Borgo. Per ridurre il deficit comunale, il 13 novembre 1923 la Municipalità decise di abbassare del 4% gli stipendi dei dipendenti comunali. E non mancarono le epidemie. La grippe flagellò il Borgo nel 1918-19, e si corse ai ripari: il Ginnasio cantonale e la scuola di disegno divennero provvisoriamente dei lazzaretti; i raduni pubblici non strettamente necessari vennero vietati; alle farmacie la Municipalità ordinò di rimanere aperte anche la domenica. Inoltre il tifo colpì più volte il Borgo all’inizio degli anni venti; tra le cause: il numero troppo esiguo di case con acqua corrente propria e la cattiva qualità dei servizi igienici.
E non va dimenticata la vita politica: i liberali avevano la maggioranza sui conservatori, mentre i socialisti entravano in Municipio con un loro rappresentante nel 1920. Ma intanto nel 1923 iniziò la sua attività (antidemocratica) la sezione fascista di Mendrisio.

Mendrisio nel secondo dopoguerra

Il 5 maggio 1945 termina la seconda guerra mondiale e a Mendrisio la popolazione invade festosamente la piazza del Ponte per celebrare l’avvento della pace. Nel dopoguerra il Borgo ha incominciato a farsi più ricco e lo stile di vita è mutato. Attività principale è stata per molti secoli l’agricoltura, ma poi le persone hanno abbandonato sempre di più i campi, privilegiando l’occupazione nelle industrie e nel terziario. È significativo il seguente specchietto delle persone occupate nei diversi settori.

Si vede chiaramente che è diminuita l’occupazione nel settore primario (agricoltura e selvicoltura), mentre è aumentata nel secondario (industria, edilizia e artigianato) e nel terziario (commercio, trasporti, comunicazioni, turismo e altri servizi).
Le principali attività industriali sono quelle tessili e dell’abbigliamento (camicerie in particolare); per i metalli e le macchine spariscono progressivamente le piccole industrie, mentre si insediano le medie e le grandi. Per quanto attiene al terziario, l’occupazione nel Borgo e nella regione è superiore alla media cantonale.
Notevoli progressi si sono registrati nel settore della socialità. Basti qui citare: l’introduzione nel 1947 della cassa pensioni per i dipendenti comunali; la costruzione, nel 1966-67, di un primo blocco di case popolari a pigione moderata per un totale di 17 appartamenti, seguiti poi da altri due blocchi che hanno portato il numero degli appartamenti a 40; l’apertura di case per anziani. Assai qualificata anche l’attività culturale: molto si è fatto e si fa per restaurare gli antichi monumenti e per salvaguardare la parte vecchia del Borgo, tanto che oggi Mendrisio dispone di un bellissimo nucleo antico ricco di arte e di storia. Anche un resoconto sommario come questo deve inoltre citare due avvenimenti: dal 1982, grazie a un lascito dei fratelli Aldo e Aldina Grigioni, Mendrisio è dotato di un suo Museo d’arte che possiede una ricca collezione permanente e può andare fiero di una serie qualificata di mostre; nel 1997, grazie alla intraprendenza di un grande artista, l’architetto Mario Botta, e alla lungimiranza delle autorità comunali e cantonali, ha iniziato i suoi corsi la facoltà di architettura dell’Università della Svizzera Italiana, destinata a crescere nel prestigio (vi insegnano docenti qualificati) e nel numero degli allievi.

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Ultimo aggiornamento: 26.10.2021